VILLA MANIN. IL RE, IL KAISER E LE OCHE. Una storia mai raccontata

Villa Manin di Passariano dedica una mostra a se stessa, mettendo al centro non gli antichi fasti dogali o il celebre passaggio di Napoleone, bensì le vicende del Novecento. Una storia che non è stata mai raccontata, intessuta di momenti drammatici ma anche densa di episodi curiosi restituiti con immediatezza da immagni inedite o poco note.

Circa cento fotografie documentano il compendio fra l’inizio e la metà del secolo, registrano gli eventi storici che lo attraversano, i bagliori di una dinastia al crepuscolo e, più spesso, l’esistenza minuta e vivace della comunità che lo abita.
Ritratta tra fine Ottocento e inizi Novecento ancora chiusa in se stessa e completa della sua ricca decorazione scultorea, la superba dimora si trova ben presto, di nuovo, al centro della Storia.

La Prima Guerra Mondiale è già scoppiata quando Re Vittorio Emanuele III sosta a Villa Manin durante una delle sue tante visite al fronte, poco prima che la rotta di Caporetto la veda attraversata dalle truppe e dai profughi in fuga. La ribalta toccherà poi ai sovrani degli stati avversari, il Kaiser Guglielmo II, l’imperatore Carlo I d’Austria.

Del tremendo disordine lasciato dal passaggio dei soldati e dei profughi dopo la disfatta e dell’ulteriore prova che dovette affrontare la Villa con l’arrivo delle truppe di occupazione ci parlano le immagini fotografiche scattate a ridosso dell’evento e un filmato girato nel 1917 dell’austriaca Sascha Film.

In un secondo filmato dello stesso anno, sul grandioso fondale del corpo centrale e delle barchesse della Villa vediamo il Kaiser tedesco passare in rassegna le truppe schierate sul prato antistante la facciata, consegnare alcune decorazioni, congedarsi dal comandante della 14a armata, Generale Otto von Below, e, debitamente protetto dal freddo dell’autunno inoltrato, salire sulla vettura in attesa presso il cancello.

La straordinaria documentazione per immagini richiesta dalla propaganda di guerra ci regala anche una ricca dotazione di testimonianze sullo stato delle architetture del compendio della Villa, riserva sorprese inattese nel parco, offre suggestivi scatti che mescolano i soldati nemici e i popolani.

La Seconda Guerra Mondiale assegnerà al palazzo una diversa funzione. Carlo Someda de Marco, direttore del Museo di Udine, farà aprire le sale del piano terra per accogliere e proteggere dal disastro incombente le opere d’arte dei territori del Friuli e della Venezia Giulia.

Le fotografie del secondo dopoguerra documentano nel parco un patrimonio scultoreo da ricomporre, restituendo alle statue le teste perdute, correggendo assemblaggi impropri, rimettendo in piedi le divinità atterrate. Le traversie subite da alberi e sculture nel corso dell’ultimo conflitto è evocata con efficacia dalle parole romanzate del Giardiniere di Villa Manin di Amedeo Giacomini. Questi, riferendo l’incivile comportamento dei soldati sudafricani accampati nel parco, racconta: “ciò che mi addolorava […] era il fatto che, ubriachi, se la prendessero con le piante del parco e soprattutto con le statue, le loro sagome preferite queste quando, nei lunghi pomeriggi domenicali, si sfidavano al tiro al bersaglio. Un occhio, una mano o addirittura una testa di dea o di filosofo partiva per sempre in scaglie o rotolava tra l’erba a ogni colpo di fucile o di pistola; una panoplia delle tante che avevan reso gloria nei secoli alle virtù guerresche dei conti, o un vaso istoriato, finivano tagliati in due a ogni sventagliata di mitra”.

Altre immagini del periodo post bellico ci parlano invece della vivacità dei giovani del borgo che celebrano la maggiore età e la bellezza delle compaesane sui muri della Piazza Quadra, tappezzati pure di manifesti di propaganda elettorale, con scarso riguardo per la dignità dell’aristocratica dimora, ormai incapace di nascondere i suoi acciacchi.

I discendenti di una delle più ricche e potenti famiglie della Serenissima sono immortalati nelle ultime occasioni di fasto: un matrimonio belle époque, ritrovi eleganti, tranquille passeggiate e cacce scherzose nel parco. Delle favoleggiate dissolutezze dei Manin, Giacomini fa dire, ancora una volta, al suo giardiniere: “Fole tutte, io credo, ché in tanti anni di permanenza in Villa assistetti soltanto a radi e castigatissimi concerti di musica classica, a qualche gara di tiro al piccione tra nobili cacciatori della zona e a una «festa campestre» cui parteciparono, chiuse in paludatissimi costumi da contadine friulane, alcune attempate ballerinette d’una compagnia di varietà che si trovava di passaggio a Codroipo”. Ma la famiglia fu certo responsabile della rivinosa dissoluzione dell’enorme fortuna accumulata dagli avi e non seppe mantenere la concordia da questi tenacemente perseguita, giungendo a suddividere la proprietà con un triste confine di filo spinato.

Negli spazi antistanti la villa va in scena la gioiosa curiosità dei bambini, il via vai operoso dei contadini con i loro carri e gli arnesi della vita quotidiana, oche, galline e cani, padroni indisturbati nella grande piazza.
Una bella immagine letteraria di questa realtà ci viene ancora una volta dai ricordi del giardiniere di Giacomini: nel “grande prato dell’esedra, circondato da una siepe di splendidi cratèghi, […] d’estate, i ragazzi del paese eran soliti portare al pascolo eserciti d’oche e di tacchini e giuocare festosi, mentre le sorvegliavano, dal mattino”.

I momenti più tristi del grande complesso della Villa sono evocati dalle parole di Elio Bartolini “Ogni tanto, nel silenzio, crolla qualcosa. Non c’è più forza in quest’invenzione, e allora la decadenza – il suo muschio che fa scoppiare le statue, il salnitro che sgretola i cornicioni e le architravi, il gesso che crolla mettendo a nudo le graticciate dei soffitti, gli uccelli che nidificando finiscono di smuovere le tegole – si consuma in se stessa”.

La scelta delle immagini, tratte da fototeche e archivi pubblici ma anche dalle raccolte di privati cittadini, collaboratori generosi e appassionati, ha portato a proporre una mostra che vuole essere il primo, piccolo tassello di una storia ancora in gran parte da scrivere.